Pier Luigi ci regala questo racconto:
"Premetto subito che sono ‘foresto’ perché non nato a Genova ma in Toscana. Però su quasi 80 anni ne ho vissuti 13 a Siena e il resto a Sampierdarena. Se una volta questo mi faceva sentire meticcio rispetto ai puri sampierdarenini che animavano la delegazione (o meglio l’antico comune assorbito nella Grande Genova del 1929) oggi –in questa insalatiera di latino americani, balcanici e africani- mi sento parte a pieno titolo della genovesità anche se parlo il dialetto in maniera approssimativa. Quando giunsi a Sampierdarena nel 1945 negli ambienti popolari che frequentavo, abitando in via Pacinotti in un capeggiato demolito per far posto alla fermata del bus con annesso giardinetto, nessuno parlava italiano. Stavo davanti all’Ansaldo e nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, vidi la massa degli operai uscire dalla fabbrica e quelle vicine (i Mulini Alta Italia, l’Eridania) e chiudere la istrada saldando sui binari le ruote dei tranway. Era l’una e la radio aveva appena data la notizia.
Ma torniamo al dialetto: la gente comune lo parlava correntemente poiché il flusso della grande migrazione interna dal sud al nord, del boom economico, era ancora da venire. Come il taglione linguistico della TV che abituava i ragazzini alla lingua e non al dialetto dei genitori. Infine l’italiano, quando il dialetto era generale diveniva un segno di distinzione. Solo nel mondo delle professioni, quelli degli ‘scagni’ di Via Cantore, notai e avvocati, coltivavano il dialetto con civetteria. Recitandolo con tono aulico, imitando le cantilene di Gilberto Govi. Affettavano 'mandillo' 'ghirindun' 'macramé' (fazzoletto, comodino, asciugamani) con tono soddisfatto.
Più in la, verso il mare, le labbra dei ‘camalli’ compiaciuti intercalano rauchi 'belin' 'mena belin' e 'sussa belin' ad ogni discorso.
Sampierdarena nell’800 per merito degli inglesi divenne la Manchester d’Italia. Vi si producevano locomotive per le ferrovie del nuovo Regno, motori a vapore, vergelle e lamiere. Poi, come il resto dell’Italia ‘autarchica’, si chiuse in se, perdendo le grandi tradizioni imprenditoriali corrotta dalle prebende romane delle Partecipazioni Statali. Infine il colpo di grazia con la selvaggia cementificazione del monte di Belvedere e Promontorio costruendo nei suoi declivi quartieri come fungaie, senza posteggi per le auto, né decente sistema di scolo delle acque piovane.
Oggi la mutazione più triste si sta concludendo. Chiusi i cinema storici del centro; lo Splendor ha fatto posto all’autosilos, il Mameli e l’Excelsior a due supermakett, il Sampierdarenese ad una banca; anche i negozi –vinerie, torte e farinate, tripperie…. L’antica trattoria ‘du Bepin’… hanno chiuso bottega. E al Canto o alla Coeuscia non più trallalleri. Solo all’imbarcadero della Fiumara per guadagnare la Diga Foranea si trovano ancora barcaieu e pescheu. Il Caffè Elvetico angolo Creuza de beu, che per tutto il dopoguerra fu il ritrovo di pivanti e contrabbandieri di sigarette; ora è un ristorante di cucina kebab e indiana. La mondializzazione esprime una forte contaminazione etnica. Spesso camminando pare essere più a Quito che a Sampierdarena. La società multi etnica è oramai realtà. Sarebbe una risorsa se l’immigrato fosse serenamente inserito nel lavoro e la legalità. Purtroppo le istituzioni sono state latitanti lasciando il fenomeno alla clandestinità.
Pier Luigi Baglioni"
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